di MARCO CARLIZZI*

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Com’è noto, l’Italia è un paese dove l’economia cosiddetta sociale, il variegato mondo del no-profit, occupa oltre un milione di persone tra dipendenti e volontari, produce migliaia di milioni di fatturato[1] ed ha una storia e delle tradizioni fortissime, radicate nel territorio, nei quartieri delle città, nei vicoli dei piccoli comuni.

Nonostante ciò, solo all’inizio del 2006 (alle soglie dei 150 anni dell’Unità d’Italia, si direbbe!) ha visto la luce il primo tentativo di normare l’“impresa sociale” e ciò attraverso il decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 155[2].

Le prime reazioni degli studiosi di diritto commerciale (visto che di impresa si tratta) su tale tentativo del legislatore furono piuttosto “freddine”[3]: emerse in primis il chiaro limite di cui era ed è permeata la legge ossia quello di non essere un intervento sistematico, di non entrare nella  disciplina degli strumenti organizzativi già esistenti e ivi inserire quelle modifiche che si ritenevano necessarie, bensì di limitarsi a creare un “cappello” adatto ad ogni abito o, fuor di metafora, un corpus di norme da sovrapporre alle regole del modello organizzativo poi prescelto.

In sostanza, il decreto non ha introdotto un nuovo “tipo” di ente “impresa sociale” dedicato a tale tipo di attività determinandone le caratteristiche, e neanche, come abbiamo detto, ha modificato la disciplina delle organizzazioni già esistenti (associazioni, fondazioni, ecc). Il decreto ha invece affermato, all’art. 1, che “possono acquisire la qualifica di impresa sociale tutte le organizzazioni private, ivi compresi gli enti di cui al libro V del codice civile [le società n.d.r.], che esercitano in via stabile e principale un’attività economica organizzata al fine della produzione di scambio di beni e servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale” e che abbiano una serie di requisiti indicati agli articoli successivi (assenza di scopo di lucro, determinata struttura proprietaria, ecc.).

Insomma, quasi fosse la bonne à tout faire[4], l’impresa sociale è nata così facendo con due vizi di fondo: da un lato (quello che “guarda” verso le organizzazioni no profit), il decreto non prevede alcuna forma di incentivo fiscale né la possibilità di deduzioni fiscali per le erogazioni liberali effettuate alle “imprese sociali” a differenza, ad esempio, delle cooperative a mutualità prevalente o comunque degli enti ONLUS e, dall’altro (ossia pensando agli enti commerciali), il decreto è disseminato di palesi disparità di trattamento rispetto alla disciplina delle società di capitali che manifestano una sfiducia palese dello Stato nei confronti dell’imprenditoria sociale e, comunque, una contraddittorietà rispetto alla scelta operata di facoltizzare l’utilizzo del modello societario.

Proprio su tale ultimo punto è bene soffermarsi facendo solo alcuni esempi:

  1. l’atto costitutivo dell’impresa sociale deve prevedere specifici requisiti di onorabilità, professionalità ed indipendenza per coloro che assumono cariche sociali: per le società di capitali ciò è solo facoltativo;
  2. solo con un patrimonio superiore ad euro 20.000 si acquisisce la responsabilità limitata: per le società a responsabilità limitata bastano euro 10.000;
  3. ex art. 6 comma secondo del decreto, “quando risulta che in conseguenza delle perdite il patrimonio è diminuito di oltre un terzo rispetto all’importo di cui all’art. 1 [euro 20.000 ndr], delle obbligazioni assunte rispondono personalmente e solidalmente anche coloro che hanno agito in nome e per conto dell’impresa”: nelle società di capitali mai le perdite producono la responsabilità personale e solidale degli amministratori ma semmai l’obbligo di ridurre il capitale o di chiedere ai soci la ricapitalizzazione o lo scioglimento;
  4. per le imprese sociali vige il divieto di corresponsione agli amministratori di compensi superiori alla media e ai lavoratori subordinati o autonomi retribuzioni o compensi superiori a quelli previsti dai contratti o dagli accordi collettivi. Anche questo rappresenta un’eccezione rispetto alla disciplina delle società e taglia le gambe a quelle imprese sociali che vogliano impiegare nella loro organizzazione l’eccellenza;
  5. si afferma che “si considera, in ogni caso, esercitare attività di direzione e controllo il soggetto che […] abbia la facoltà di nomina della maggioranza degli organi di amministrazione”: a parte l’evidente strafalcione nel parlare di attività di “direzione e controllo” piuttosto che di attività di “direzione e coordinamento”, il decreto prevede una presunzione assoluta di direzione e coordinamento laddove per le società di capitali (capo IX, titolo V, libro V del codice civile) vige il principio opposto della presunzione semplice (è quindi fatta salva la prova contraria);

  1. infine, devono essere previste forme di coinvolgimento dei lavoratori e dei destinatari delle attività, ossia strumenti di informazione, consultazione e partecipazione mediante i quali essi possano esercitare un’influenza nelle decisioni imprenditoriali: il coinvolgimento dei cd stakeholders (lavoratori ed “utenti”) non è mai ammessa nella gestione dell’impresa commerciale ed anzi la cd. business judgment rule è considerata un limite invalicabile anche da parte del giudice[5], dunque si introduce un principio rivoluzionario nelle società commerciali prevedendo però contemporaneamente che il 50% dei lavoratori possano essere volontari (art.14 comma 2 del decreto). Insomma, da un lato, si va verso la valorizzazione del lavoro e dei lavoratori, verso una socializzazione dell’impresa e dall’altro, però, si fa diventare il lavoratore prestatore d’opera gratuita!

Con particolare riferimento al tema del capitale sociale (punto 2 suesposto[6]) e della responsabilità limitata (punto 3 suesposto), ad onor del vero, non si capisce perché mai dovrebbero coesistere (e di fatto coesistono) nell’ordinamento giuridico due forme di responsabilità limitata così diverse: una per le società profit e una per società no profit.  Se è vero, come è vero, che la disciplina dell’impresa sociale è applicabile a tutti gli enti del terzo settore e, dunque, anche a quelle società che, pur applicando la disciplina prevista per le società di capitali perseguano l’interesse generale e non abbiano scopo di lucro, tale differenziazione non ha ragion d’essere.

Nessuna discriminazione dovrebbe potersi trarre dall’attività svolta, al massimo verrebbe da pensare esattamente il contrario, ossia verrebbe da dare meno credito a chi esercita un’attività per un proprio personale scopo di lucro piuttosto di chi esercita un’attività per il bene comune: il primo sarà orientato a rischiare di più (e non con mezzi propri, ma “tirando il collo” ai creditori!) pur di ottenere il successo della propria iniziativa commerciale e, d’altra parte, la pratica ci dice che l’imprenditore fa “carte false” prima di dichiararsi fallito nel suo intento ed insolvente ai sensi della legge fallimentare.

D’altra parte, la società che vorrà essere “impresa sociale” dovrà comunque rispettare tutti gli obblighi posti a tutela dell’integrità del patrimonio (dalla contabilità, al bilancio, agli organi di controllo) e dunque anche da questo puto di vista non ha alcun senso che ci sia uno sfaldamento della società no profit dalle regole della società profit.

Probabilmente il problema della responsabilità personale degli amministratori in caso di perdite superiori al terzo del capitale, può essere superato in via interpretativa e quindi argomentando nel senso che l’inciso “salvo quanto già disposto in tema di responsabilità limitata per le diverse forme giuridiche previste dal libro V del codice civile”, previsto al primo comma dell’art. 6 con riferimento alla responsabilità limitata, sia altresì applicabile anche al secondo comma laddove si prevede invece la responsabilità degli amministratori qualora il patrimonio diminuisca in conseguenza delle perdite superiori ad un terzo del capitale sociale[7].

Ma il tema più ampio rimane, ossia cercare di capire perché il legislatore abbia sentito il bisogno di inserire all’interno dello statuto dell’imprenditore commerciale[8] una serie di paletti che vincola e scoraggia l’organizzazione sociale volendo però d’altra parte estendere la disciplina dell’imprenditore ad un’attività not for profit.

Ebbene non vorremmo che la risposta sia da un lato una profonda sfiducia del legislatore nei confronti nel Terzo Settore organizzato e dall’altro l’estrema frammentazione di quest’ultimo che dunque non riesce ad esprimere in maniera chiara le proprie esigenze.[9]  

D’altra parte il “mercato delle regole” del terzo settore ha reagito nell’unica maniera possibile ossia ha utilizzato ben poco questa novella “impresa sociale” ed ha continuato ad operare attraverso gli strumenti organizzativi preesistenti (dalle cooperative sociali alle fondazioni, dalle organizzazioni di volontariato alle associazioni di promozione sociale).

Insomma, verrebbe proprio da dire c’era una volta l’imprenditore che esercitava professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi ed ora invece c’è un’impresa povera (perché pur avendo numerosi vincoli non ha nessuna agevolazione né rispetto all’accesso alle risorse pubbliche né di tipo fiscale), socializzata nella gestione (ricordiamo il coinvolgimento degli stakeholders nella gestione), discriminata rispetto alle società di capitali e comunque sfiduciata dal legislatore la cui penna tradisce un evidente pregiudizio rispetto al mondo del Terzo Settore (la vicenda del capitale sociale doppio rispetto a quello di una qualsiasi società a responsabilità limitata e la disciplina delle perdite superiori ad un terzo del capitale è un chiaro segnale in tal senso).

* Presidente Associazione Legale nel Sociale (www.legalenelsociale.it)


[1] Cfr. Forum Nazionale del Terzo Settore, Le Reti del Terzo Settore, Rapporto di ricerca, Roma, 2010. Dallo studio, presentato a Milano il 14 luglio 2010, risulta che in Italia nel no-profit sono impegnati 350 mila lavoratori, 1,6 milioni volontari, mentre gli enti sono oltre 94 mila che muovono risorse economiche per circa 8 miliardi di euro.

[2] Sul tema si veda: G. Racugno, L’impresa sociale, in Riv. Dir. Comm., 2009, I, p. 49; Voce dell’Enciclopedia giuridica – Aggiornamenti (Treccani).

[3] Cfr. V. Buonocore, Può esistere un’impresa sociale?, in Giur. Comm., 2006, I, p. 833; V. Calandra Buonaura, Impresa sociale e responsabilità limitata, in Giur. Comm., 2006, I, p. 849; R. Costi, L’impresa sociale: prime annotazioni esegetiche, in Giur. Comm., 2006, I, p. 860; e da ultimo G. Racugno,  cit..

[4] L’espressione è utilizzata per le società anonime da P. Reuter, Les Participations financières. La Société Anonyme au service des collectivités publiques, Paris, 1936, ripresa anche da M.A. Carnevale Venchi, in Trattato di diritto amministrativo, diretto da G. Santaniello, vol. 29, I,  p. 498.

[5]La business judgment rule è stata creata dalla giurisprudenza statunitense. La regola stabilisce che sull’agire dei membri del board il giudice faccia un controllo meramente procedurale volto a stabilire se abbiano agito con la diligenza necessaria. Qualora tale verifica abbia esito negativo andrà accertata la responsabilità, ma in nessun caso è consentito procedere a riesaminare nel merito le decisioni del board, identificabile in quell’insieme di valutazioni di opportunità e di carattere tecnico (commerciale e finanziario). Anche in Italia il contenuto della responsabilità degli amministratori ha subito un’interpretazione alla luce della giurisprudenza americana la quale ha ormai metabolizzato la “business judgment rule”. Secondo codesto orientamento non sarebbe sindacabile il merito delle decisioni gestionali mentre sono oggetto di azione di responsabilità solamente le modalità e le procedure adottate per compiere le scelte criticate.

[6] La legge parla di patrimonio ma deve intendersi in realtà “capitale sociale”.

[7] Nello stesso senso R. Costi, cit., p. 867 che coglie esattamente il punto.

[8] Ricordiamo che la società altro non è se non “l’esercizio entificato dell’attività di impresa” (l’espressione è di B. Libonati)

[9] Stante quanto sopra detto circa i limiti della disciplina dell’impresa sociale introdotta nel 2006 plauso va tributato a chiunque cerchi di mettere a sistema l’enorme massa di normativa che oramai si è affastagliata intorno al tema delle organizzazioni non profit e dunque ben vengano in particolare le riforme del Libro I del codice civile perché – magari – si possa, attraverso queste riforme, dare finalmente una risposta ai problemi propri degli strumenti organizzativi del Terzo Settore. Il tema è che delle due ipotesi ad oggi in campo (il disegno di legge Alfano-Sacconi di giugno 2010 e la Proposta di Legge “Bobba + altri”, Camera dei Deputati N. 3683 presentata il 30 luglio 2010) nessuna riesce a smarcare la contraddizione di far coesistere enti profit a responsabilità limitata e entri no profit a “responsabilità limitata, ma fino ad un cento punto”: in entrambe, l’ente per ottenere una autonomia patrimoniale perfetta deve stipulare un’apposita polizza assicurativa o bancaria.

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