di MARCO CAUSI

Le cittadine e i cittadini di Roma hanno un motivo in più per votare “sì” all’abrogazione della sgangherata riforma dei servizi pubblici locali imposta dal Governo Berlusconi a colpi di voti di fiducia fra il 2008 e il 2009. A Roma è in ballo la sorte dell’Acquedotto del Peschiera, il principale della Capitale e uno dei più importanti d’Italia, la cui gestione rischia di essere privatizzata.
La cosiddetta riforma prevede un meccanismo di “incentivazione” per i Comuni che decidono di privatizzare le aziende quotate in borsa da loro possedute. Il meccanismo funziona così: se il Comune non scende sotto il 51% del possesso azionario, allora scatta l’obbligo di mettere a gara le concessioni dei servizi pubblici gestiti dall’azienda, mentre se il Comune scende sotto il 51% le concessioni in essere vengono salvate dalla gara e restano in vita fino alle scadenze previste dai contratti vigenti. In questo secondo caso si realizza il peggiore dei mondi possibili: nessuna gara, quindi nessun confronto competitivo, e azienda privatizzata. Insomma, privatizzazione senza liberalizzazione, ovvero passaggio secco da monopolio pubblico a monopolio privato. In assenza, per di più, di una vera Autorità nazionale indipendente di regolazione che possa garantire da ingiustificati aumenti delle tariffe.
La possibilità che questo scenario si compia sull’acqua della Capitale fa venire i brividi. Eppure è quello che rischia di succedere se i referendum del 12 e 13 giugno dovessero fallire. Il gestore del servizio idrico nella Capitale e nella provincia di Roma è una società quotata in borsa (Acea), la cui concessione, rinnovata nel 1996, scadrà nel 2026. Se il referendum non riuscisse a cancellare le norme descritte, di fronte a Roma ci saranno solo due strade: o il Comune resta al 51% in Acea, e si lancia una gara per la gestione del servizio idrico, oppure il Comune scende sotto il 51% – come si è già impegnato a fare con atti di indirizzo votati dalla maggioranza di centro-destra in Campidoglio – e la concessione resta indisturbata fino al 2026. Se in quella concessione sono contenuti elementi di rendita monopolistica, essi semplicemente andranno a vantaggio dei compratori delle azioni pubbliche, che il Comune potrà scegliere, come recita la legge da abrogare, con procedure di “collocamento privato presso investitori qualificati e operatori industriali”.
A ciò si aggiunga che, nel caso romano, questi acquirenti sembrano avere già un nome, un cognome e una ragione sociale. Già oggi Acea sembra controllata più da uno dei soci di minoranza che non dal socio pubblico maggioritario, come conseguenza della incapacità dell’attuale Giunta comunale di esercitare in modo decente il ruolo di azionista: un’incapacità che è stata dimostrata negli ultimi anni, e non solo in Acea, al di là di ogni ragionevole dubbio.
A ben pensarci però, di fronte ai quesiti referendari, il punto rilevante non è neppure questo. Certo, è utile ricordare che in un passato neppure troppo lontano il Comune è stato un azionista più attento e giudizioso, da un lato nel presidiare il valore pubblico della sua partecipazione in Acea e dall’altro lato nel contenere le invasioni di campo della politica sulla gestione aziendale. Ma quando si prendono decisioni irreversibili in materie così delicate come le infrastrutture idriche (tipico esempio di monopolio naturale) non ci si può limitare a giudizi di tipo congiunturale. Bisogna pensare agli scenari di lungo periodo.
Bisogna, ad esempio, ricordare che la concessione per l’acqua di Roma non comprende soltanto gli ordinari servizi di distribuzione, depurazione e fognature. Acea esercita anche il ruolo di concessionario per l’Acquedotto del Peschiera, la principale infrastruttura idrica che rifornisce di acqua un bacino di 3 milioni e mezzo di abitanti. E questa concessione di captazione e derivazione è giuridicamente separata da quella del servizio idrico integrato, poiché ha finalità sia idriche che di produzione elettrica. Diluire il controllo pubblico su Acea non significa soltanto privatizzare il gestore del servizio idrico, significa anche privatizzare (almeno fino al 2026) il principale acquedotto della Capitale. Con il paradosso che, se in futuro si volesse fare una gara per la gestione del servizio idrico romano, quella gara potrebbe non contenere il Peschiera e il vincitore dovrebbe pagare il monopolista privato per l’accesso all’acqua captata da quelle sorgenti.
Un’impresa come Acea che ha in “pancia” una concessione dal valore così rilevante sul piano pubblico dovrebbe sempre restare sotto qualche forma di controllo pubblico. Pensiamoci bene, non due o tre ma venti o trenta volte, prima di spianare la strada alla sua privatizzazione. Anche quando Acea si propone, al di fuori di Roma, come gestore industriale (ed è il primo in Italia), il fatto di essere un’azienda a controllo pubblico rappresenta un fattore di competitività, poiché garantisce le popolazioni servite che la loro acqua non è nelle mani di un gestore interessato unicamente all’estrazione di rendita finanziaria nel breve periodo. La vittoria dei “sì” ai referendum ci permetterebbe di ragionare con serenità non solo sull’assetto dell’intero settore idrico italiano, ma anche sul futuro di una delle più importanti aziende romane.

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