di GIOVANNI CAUDO

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Le città sono una risorsa importante per la crescita sociale ed economica del nostro paese, eppure non sono più da tempo oggetto di attenzione da parte della politica. La vita materiale di molti cittadini dipende però dalle città, dalla loro efficienza e dalla loro capacità di costruire senso di sicurezza sociale e di progresso. Non è così in molti altri paesi europei.

All’inizio del secolo scorso, un urbanista, disse che i compiti perenni dell’uomo sono “coltivare la terra e costruire la città”. La città è costruzione antropica complessa, con essa l’uomo è diventato altro, ha imparato alcune cose e ha perso delle competenze antiche. L’uomo urbano è più sano ma è anche più fragile. Oggi nella città la prospettiva di vita è più lunga di quella che si ha nelle campagne. Un cittadino di New York emette mediamente la metà delle emissioni di CO2 di un cittadino americano, così anche a Londra e ancora a Tokyo, solo a Pechino il dato si inverte.

Il Novecento, il secolo delle migrazioni e dell’urbanizzazione, ci ha lasciato città più salubri e sicure della campagna. Nella Londra di inizio ‘800 non era così: i morti allora superavano i nati. Nel 1811, New York era poco più che un villaggio, nel 1853, pochi anni dopo, si inaugurava Central Park sull’onda di una discussione pubblica animata dall’aristocrazia urbana che portò a sposare “città” e “natura”. Un viaggio lungo un secolo e mezzo che oggi è divenuto il tema di moda, per alcuni è la nuova frontiera della città dopo il post-moderno, quella di una nuova cosmopolis dove l’uomo, la città, la natura compresi gli animali sono chiamati a convivere insieme.

Viviamo in un mondo di città, in cui gli scambi commerciali, finanziari, la mobilità delle persone e delle cose hanno progressivamente spostato il centro del discorso politico ed economico verso le città. Oggi il 30% dell’intera economia mondiale e di tutte le innovazioni tecnologiche si produce in sole 100 città. Un mondo di città ma con evidenti squilibri sociali e politici: dei tre miliardi di popolazione urbana circa un miliardo vive negli slum, nelle favelas, su terreni inquinati, nelle discariche, non proprio città. E non sappiamo neanche dire quanti saranno quelli che vivranno in queste condizioni nel 2020.

La città europea, che fu ammirata e copiata nel nuovo mondo, risente oggi della crisi del vecchio continente ed è impegnata a ridefinire la sua collocazione nel mondo, a tessere nuovi rapporti, a farsi attraversare dai flussi delle merci e più ancora da quelli finanziari e dalle informazioni. Se ci sarà un nuovo mondo non potrà che nascere nelle città per andare oltre la frammentazione e il neocomunitarismo chiuso ed escludente: quello della paura del vivere insieme, proprio quando il nostro destino sarà invece di vivere tutti più vicini gli uni agli altri.

Se la politica partisse da qui, rinunciando alla paura, troverebbe prospettive nuove e parole nuove.

L’urbanistica del secolo scorso si è occupata della città per edificarla, per farla espandere, per costruire nuove attrezzature e infrastrutture e per accogliere le masse dei nuovi inurbati. L’urbanistica, soprattutto quella italiana ha perso (in particolare negli ultimi trent’anni) la battaglia dell’equità, della giustizia sociale, della rendita e ancora la battaglia decisiva per un paese come il nostro quella della Bellezza.

Oggi che intere parti del territorio italiano si sono fatte Metropoli senza mai essere state città, e sono passate da Campagna a Metropoli, il compito per l’urbanistica è di altra natura. A Milano ci sono 900 mila mq di uffici inutilizzati, l’equivalente di 30 Pirelloni. Nel 2007, l’anno prima della crisi finanziaria, in Italia si sono costruiti circa 307 mila nuovi alloggi, molti di questi risultano vuoti o invenduti. A Roma ci sono circa 4.000 ha di suolo edificato, quartieri e città, costruiti tra il 1970 e il 1990 che devono essere in buona parte ripensati.

Davanti a noi c’è un’opportunità grande: rifare meglio la città che abbiamo costruito negli ultimi 40 anni. Ma anche una complicazione altrettanto grande: dobbiamo rendere economicamente possibile, socialmente conveniente e sostenibile ambientalmente la rigenerazione della città costruita. Dobbiamo conservare la campagna e tornare a Ri-abitare la città abitata.

Se la politica partisse da qui incontrerebbe nuovamente l’urgenza dell’innovazione e di una nuova consistenza del fare.

Nei paesi occidentali il valore complessivo degli immobili residenziali è cresciuto nel decennio 1997-2006, da 30 trilioni di dollari ad oltre 70 trilioni, stime del The Economist, un incremento che equivale al raddoppio del Pil di tutti i paesi di quella stessa porzione di mondo. Questo dato che misura un incremento d’insieme, per altro mai verificatosi prima in questa misura, si traduce in una incredibile moltiplicazione dei valori immobiliari: 192% in Irlanda, 154% in Inghilterra, 145% in Spagna, 87% in Francia e Italia. Raddoppi e triplicazioni dei valori immobiliari si nascondono dietro questi valori medi e riguardano soprattutto le grandi città. La crisi degli ultimi anni ha inciso correggendo questi incrementi, soprattutto lì dove maggiore era stata la crescita, in Irlanda, in Spagna, in Italia invece la correzione è stata molto contenuta, e soprattutto, la contrazione delle compravendite non ha comportato un ribasso dei valori immobiliari, rimasti sostanzialmente stabili (-0,6%!). Oggi, dopo la crisi, è ancora più difficile per una fascia crescente di italiani poter acquistare una casa.

L’immobiliare associato alla finanza e agli strumenti finanziari ha consentito di stampare moneta per alimentare il nostro sistema economico. La ricapitalizzazione del sistema economico si muove lungo questa filiera ed é nelle famiglie, nella loro capacità di indebitamento, in parte anche sottoposta a forzature, che ha potuto attingere risorse economiche a piene mani. Oggi le famiglie italiane hanno un debito di circa 300 miliardi di euro, di questi, 250 miliardi sono mutui immobiliari. Che sia stato l’indebitamento delle famiglie a sostenere il mercato immobiliare è testimoniato dall’aumento delle compravendite con mutuo ipotecario: erano circa il 30% alla fine degli anni Novanta, sono quasi il 50% (48%) nel 2006, con una crescita, tra il 2004 e il 2006, di tre punti. In valore assoluto, nel 2006, le compravendite con mutuo sono state 408.869; ai primi posti sono le province di Milano (41.309) e Roma (35.222) che da sole rappresentano il 20% del totale delle transazioni con mutuo. In termini di risorse economiche, nello stesso triennio 2004-2006, l’indebitamento delle famiglie è cresciuto, sul valore medio annuale, del 30% (da 39,9 miliardi di euro a 52,2).

Il ruolo svolto dai mutui, e quindi dall’indebitamento delle famiglie, nel sostenere il mercato immobiliare è ulteriormente verificato anche da quanto avvenuto negli ultimi due anni di crisi. Il calo delle compravendite è andato di pari passo con il calo dei mutui, c’è una relazione diretta tra i due indici, mentre non c’è con i valori immobiliari che, come detto, si correggono in misura non sostanziale.

Le case sono diventate di carta, e le città, soprattutto le grandi, sono divenute esse stesse “fabbriche”. La città, luogo principale delle trasformazioni, dall’economia industriale a quella dei servizi, é diventata “merce” delle transazioni finanziarie. La finanziarizzazione è dunque il segnale di una più ampia mutazione dei meccanismi di produzione della città e dei modi in cui si realizza la crescita economica. L’implicazione più forte di questa mutazione è che la crescita immobiliare non è più guidata dalle nuove costruzioni, dall’espansione urbana che si aggiunge a cerchi concentrici facendo aumentare i valori delle aree centrali, ma è alimentata, invece, dalla valorizzazione del patrimonio esistente. La crescita dei valori immobiliari fa leva sull’esistente e solo dopo tracima sul nuovo. Si tratta di un cambiamento radicale del paradigma economico nella costruzione della città.

Nel 2009, le famiglie italiane hanno speso mediamente il 5% in meno per l’abbigliamento, il 3% in meno per gli alimentari, il 7% in meno per la sanità. Le uniche due voci di spesa che le famiglie italiane non riescono a ridurre e che anzi aumentano sono: i consumi per i combustibili e per l’energia elettrica (3,94%) e per l’abitazione (+2,29%). Per spuntare un costo della casa più accessibile gli italiani si arrangiano e vanno a vivere lontano dalla città nell’area metropolitana. Roma ormai cresce a Orte, e gli ex romani pendolano avanti e indietro: la stessa distanza che c’è tra Milano e Alessandria.

In Italia su ogni due immobili venduti, più di uno è comprato con un mutuo, a Roma la media è più alta, quasi 1,5. E l’incidenza più alta dei mutui si ha per gli acquisti di alloggi piccoli: il 60% dei mutui concessi. Il debito delle famiglie è salito al 65% del reddito disponibile, l’80% è debito bancario a medio e a lungo termine (mutui). In Italia le famiglie sono circa 22 milioni, il 15% paga un mutuo. Il 20% delle famiglie vive in affitto di cui il 4% in affitto sociale, quindi il 16% delle famiglie italiane paga un affitto a canone di mercato. In complesso 3 famiglie italiane su dieci, circa 7 milioni di famiglie italiane, destinano una parte del loro reddito, spesso una parte consistente, alla casa e contraggono i consumi. In termini economici (per una rata media di 590€) si tratta di oltre 4 mld di euro ogni mese (circa 50 mld l’anno).

Da questo scenario il discorso potrebbe prendere diverse strade, a cominciare da quella che attiene più direttamente alla nuova questione casa. Ma, e non sarebbe certo meno importante, ci si potrebbe rivolgere alla questione più generale delle regole dello sviluppo urbano, ma sarebbe meglio dire alla questione della progressiva cancellazione delle regole urbanistiche. Una cancellazione che per molti versi è funzionale all’esigenza della finanziarizzazione di dover estendere i propri strumenti anche alla città di pietra. Come non ritrovare qui un interesse specifico che attiene ad esempio alla progressiva espansione e all’ulteriore consumo di suolo.

Regole e diritti sembrano essere le questioni verso cui sarebbe opportuno concentrare le argomentazioni del dibattito urbanistico odierno.

Qui ci soffermiamo però sul malessere urbano che si registra per provare ad accennare quantomeno alle implicazioni che tali fenomeni stanno producendo nella vita delle città. C’è un diffuso malessere urbano che si manifesta in forme indirette, nessuna barricata, ancora, eppure gli indicatori di questo malessere non mancano, basta saperli ascoltare. La difficoltà di abitare una casa, una difficoltà crescente che interessa fasce ampie dell’ex ceto medio, si è imposta nell’agenda politica in questi dieci anni grazie ai movimenti di lotta per la casa, a Roma, a Milano ma anche a Venezia e a Palermo. Ma oggi non basta più. L’ingresso nell’agenda politica di un tema così socialmente rilevante è avvenuto nel modo più tradizionale e scontato: si pensa di risolverlo costruendo ancora nuove case. Eppure negli anni in cui cresceva il disagio, in Italia si costruivano tante case come non mai negli ultimi trent’anni. Si è arrivati a costruirne oltre 300 mila ogni anno (309.379 nel 2007), eppure contemporaneamente aumentava il disagio di chi aveva una casa e non riusciva a mantenerla o di chi non riusciva ad entrare nel mercato immobiliare sempre più finanziarizzato e speculativo. Roma con 9.320 nuove abitazioni costruite nel 2007 è il primo comune italiano per attività edilizia, Milano si ferma a 1.715 unità. L’anno prima, nel 2006, ne erano state costruite di più, quasi 10 mila case. Negli stessi anni di questo vero e proprio boom edilizio cresceva, e forte, il disagio dei romani che non riuscivano a trovare una casa a costi accessibili. Molti hanno dovuto lasciare la città per i comuni della provincia, una vera e propria espulsione. Nel 2008 le persone cancellate da Roma ed emigrate negli altri comuni del Lazio ammontano a 38.142, (+14% rispetto al 2005) di queste, 29.477, il 77%, si rilocalizzano nei comuni della provincia di Roma. Si tratta di un fenomeno che può essere spiegato da diversi punti di vista, e tra questi certamente va considerato il differenziale tra i valori immobiliari del capoluogo e quelli dei comuni della provincia. Nel 2008 il prezzo medio pagato per un’abitazione a Roma è stato di 321.785 euro, nei comuni della provincia invece è stato di 185.470 euro, con un differenziale, a favore di questi ultimi, del 43%!

La contraddizione che emerge: più case si costruiscono e più persone hanno difficoltà ad accedere ad un alloggio, dovrebbe aiutarci ad orientare i ragionamenti verso forme più complesse, capaci di cogliere i differenti modi di intervento da mettere in campo. La banalizzazione della questione casa a fatto meramente edilizio è sbagliata perché non coglie i reali bisogni delle persone in difficoltà, ed è ancora sbagliata perché non fa comprendere fino in fondo i cambiamenti radicali cui la città è stata oggetto in questi ultimi venti anni a cavallo del passaggio di secolo.

Da queste premesse emerge con molta chiarezza la centralità che le regole per un’ordinato sviluppo del territorio potrebbero rivestire per contribuire e, in qualche misura accompagnare questa rifondazione. Regole che, diversamente da quanto si sostiene, non sarebbero contro il mercato, ma piuttosto a favore di un’ economia di mercato sana che salvaguardi i principi di convivenza civile e di mutua solidarietà, che in definitiva faccia i conti con la salvaguardia di un ambiente comune all’agire dei singoli e degli individui.

La contraddizione più rilevante è la continua erosione del suolo, delle terre che costituiscono le nostre campagne. Due terzi del suolo urbanizzato della città di Roma sono stati realizzati negli ultimi cinquant’anni: è il corpo dell’ultima città in ordine di tempo. Significativo, in questo processo di crescita, è stata la realizzazione di estesi complessi residenziali pubblici in attuazione della legge 167 che costituisce, sia per gli aspetti quantitativi che per quelli qualitativi, una specificità del caso Roma. Una ricognizione più attenta della città pubblica, che non si fermi ai soliti noti, Corviale e Laurentino, rivela che si tratta di parti di città con un forte potenziale di trasformazione. E’ questo il corpo della città che chiamiamo periferia. Ed è qui, dentro la città costruita e da ristrutturare, che prende corpo la mutazione principale che attraversa le città europee e che ne sta rinnovando la condizione attraverso i processi di rigenerazione urbana che negli ultimi anni si sono incrementati di molto per numero e per rilevanza.

Scrive Bruno La Tour in Politica della naturalezza: “La notte è caduta, la processione terminata, la città costruita, il collettivo abitato: l’ecologia politica possiede finalmente le sue istituzioni”. Da qui potremmo ripartire per ragionare della terza città che nasce dall’esplorazione di ciò che abbiamo costruito (consumato) che si riconosce attraverso l’esplorazione di mondi comuni, e il confronto con le pluralità dei mondi abitati.

Se la politica sapesse comprendere questi fenomeni, se li conoscesse potrebbe cogliere occasioni importanti di innovazione e di sviluppo economico e sociale.

Noi di obiettivo comune crediamo a una politica che sa ricominciare da queste cose, che sa guardare dentro a queste parole e ci impegniamo perché ciò accada, già nei prossimi appuntamenti dedicheremo spazio e tempo alla costruzione della città, alla casa, alle infrastrutture: coraggio e in bocca al lupo a tutti noi.

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