di SALVATORE BIONDO

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I grandi agglomerati urbani sono certamente il luogo della crescita e delle opportunità, ma è innegabile che essi ci mostrano pure un groviglio di contraddizioni, di situazioni estreme che fanno diventare le città i luoghi della disperazione, delle grandi disuguaglianze, dell’abbandono, dell’emarginazione, delle violenze, dei conflitti sociali.

Politiche di coesione sociale sono allora assolutamente necessarie se non si vogliono allargare le differenze ed esasperare i conflitti, facendo divenire la povertà e la disperazione urbana, un mero problema di ordine e sicurezza pubblica, come propongono le destre ai vari livelli di governo.

La crisi globale che, come affermano tutti gli osservatori e come ci mostra la realtà di ogni giorno, è ben lontana dall’essere in via di superamento, estremizza queste dicotomie, allarga le differenze, produce nuove povertà.

Una delle conseguenze più pesanti si produce sulla capacità delle Istituzioni Pubbliche di generare spesa per investimenti e per le politiche sociali; questo avviene sia a livello centrale che locale.

Per il nostro Paese tutto ciò è reso ancora più gravoso dall’enorme fardello di debito pubblico che ci trasciniamo e che le politiche dell’attuale Governo stanno continuando a far crescere a causa dell’incapacità di definire consistenti risparmi nella spesa pubblica improduttiva.  Si sono fatti “tagli lineari” ai vari capitoli di spesa, senza discernere in base alle priorità del Paese, all’idea di sviluppo e agli strumenti necessari a sostenerne la crescita, senza una capacità di controllo sulla spesa effettiva dei vari centri di spesa.

Questo difficile contesto evidenzia la necessità di correlare strettamente politiche di inclusione sociale e politiche di concertazione, di partecipazione diffusa. Le nostre società, proprio perché complesse e sempre più atomizzate, hanno un forte bisogno di mediazione sociale e questa, nella crisi, diventa assolutamente indispensabile.

La politica, allora, deve abbandonare la sua  pretesa autosufficienza di, deve smetterla di pensare a se stessa come l’unico luogo di governo della società e delle sue contraddizioni. La complessità non può essere semplificata, il confronto politico non è sufficiente a costruire tutte le risposte necessarie, le elezioni non sono palingenetiche rispetto alle contraddizioni sociali crescenti; la democrazia parlamentare, pur assolutamente necessaria ed indispensabile, non può essere esaustiva delle necessità di partecipazione democratica.

Bisogna, quindi, incrementare i luoghi, le sedi della democrazia.

La concertazione tra le parti sociali e i diversi livelli di governo della “cosa pubblica”, è stata uno degli strumenti migliori che siamo riusciti a mettere in campo per realizzare contemporaneamente politiche di crescita e di coesione sociale. Il suo momento migliore è stato sicuramente l’accordo del luglio 1993, realizzato con il Governo Ciampi. Ma anche in quell’occasione il sistema politico visse il ruolo sindacale quasi come una pratica abusiva in cui soggetti non legittimati dal voto popolare si “arrogavano” il diritto di intervenire, di decidere su materie di interesse generale; era ed è evidente la preferenza, specie in alcune posizioni politiche, verso un sindacato settoriale e persino corporativo rispetto ad un sindacato confederale e solidale che si pone il problema delle compatibilità e delle necessità generali del Paese in contemporanea alla tutele dei propri rappresentati.

Nessuno nel sindacalismo confederale, e men che meno il sottoscritto, intende mettere in discussione il primato del Parlamento e delle altre assemblee elettive, democraticamente legittimate dal voto popolare. La questione è comprendere che per governare democraticamente questa società, c’è bisogno di più partecipazione dei cittadini, attraverso le loro libere e democratiche forma associative, alle scelte politiche, amministrative, economiche e sociali che li riguardano.

Si tratterà certamente di definire criteri e regole trasparenti di rappresentanza e rappresentatività, ma scegliere la coesione sociale e la crescita come “cifra” della buona politica, non può prescindere da questo processo di allargamento della partecipazione politica e della democrazia sostanziale.

In questi anni, al contrario, abbiamo assistito non soltanto ai tagli della spesa pubblica ma anche al drastico ridimensionamento della concertazione sociale. Una scelta che ha prodotto danni, speriamo non irreversibili, tra gli stessi sindacati confederali, che tuttavia rimangono le organizzazioni sociali di gran lunga più rappresentative nel Paese. Ci siamo divisi tra chi ha tentato ( qualche volta esagerando ma anche registrando dei successi) di limitare i danni della crisi e delle politiche governative attraverso il negoziato e chi invece, si è esercitato nella difesa di posizioni di principio tanto legittime quanto incapaci di determinare tutele effettive.

Questa crisi della concertazione pesa ancora di più a livello locale, sul territorio. E’ questo il livello dove vanno realizzate le politiche di prossimità ai bisogni dei cittadini, le scelte infrastrutturali, i processi di crescita economica. Purtroppo ormai da qualche anno, gli Enti Locali e le Regioni vivono una crisi finanziaria e fiscale che è stata ulteriormente aggravata dalla sciagurata scelte di abolire totalmente l’ICI. Questa decisione ha colpito duramente le grandi aree metropolitane che necessitano di enormi investimenti nelle grandi reti infrastrutturali e per le politiche di integrazione.

Negli anni di governo del centro-sinistra a Roma e nel Lazio, le difficoltà finanziarie sono state affrontate anche attraverso la costruzione di un sistema di relazioni che, pur tra mille difficoltà e contraddizioni, era riuscito a creare interdipendenza tra gli attori sociali, riconoscimento reciproco dei diversi ruoli e dei differenti interessi, facendoli convergere verso una visione condivisa delle priorità della comunità metropolitana. In sostanza si è praticata una partecipazione responsabile anche se debolmente strutturata, che ha fatto della concertazione una politica riconosciuta nel governo della città e della Regione.

Questa esperienza, conosciuta anche con il nome di “Modello Roma”, con l’avvento delle Giunte di centro-destra sia a Roma che alla Regione Lazio, è stato immediatamente abbandonato e sostituito da un sistema di relazioni informali e particolari, che magari hanno creato l’illusione, nell’interlocutore di turno, di poter costruire relazioni privilegiate nell’interesse dei propri rappresentati.

Oggi nel nostro territorio la concertazione non esiste più o è soltanto episodica e rarefatta. La tendenza sembra essere quella di sostituire ad un sistema trasparente ed esplicito come quello concertativo, una pratica informale e lobbistica in cui chi governa la cosa pubblica decide da solo le priorità, gli interessi da tutelare, i bisogni da soddisfare e poi li scambia nel mercato del consenso.

Concludo dicendo che ritengo assolutamente necessario riuscire a sottrarre la concertazione alla “logica del pendolo”, per cui essa diventa sempre una variabile dipendente dal ciclo politico o economico, dai rapporti di forza tra le varie componenti sociali e tra queste e la politica.

Su queste tematiche sicuramente Obiettivocomune dovrà, in tempi non lunghi, provare a proporre una riflessione più compiuta.

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